Dal 12 al 16 agosto l’arcivescovo è stato in Turchia per incontrare le piccole e attive comunità cristiane del Paese
DI MARIAGRAZIA ZAMBON
«Grazie monsignor Mario, per la sua visita a questo piccolo gregge: una minuscola comunità cristiana, che oggi si sente una perla preziosa valorizzata dalla sua presenza tra noi». Con queste parole l’arcivescovo di Izmir, monsignor Martin Kmetec, ha introdotto e spiegato in sintesi, all’inizio della celebrazione eucaristica di domenica 13 agosto, la presenza dell’arcivescovo di Milano Mario Delpini a Konya, la città turca nel cuore dell’Anatolia dove chi scrive, consacrata dell’Ordo Virginum, si trova come fidei donum ambrosiana. Una celebrazione in cui tutti i partecipanti, nonostante la diversa provenienza geografica e culturale, si sono sentiti un’unica famiglia e sono stati incoraggiati a non aver paura, a continuare a fidarsi di Dio, e qualora ci si trovasse nella tempesta, di avere il coraggio di invocare come ha fatto Pietro «Signore salvami», aggrappandosi poi alla mano di Gesù che non vuole certo che affoghiamo. Sostenuti da queste parole, è stato significativo l’incontro, semplice ma profondo, con i ragazzi della parrocchia, sia turchi sia studenti africani. Un dialogo schietto sui problemi, le preoccupazioni e le speranze che abitano le nuove generazioni, confrontandosi su quanto emerso durante l’appena trascorsa Giornata mondiale della gioventù e quanto stanno vivendo i ragazzi cristiani come minoranza in un contesto prevalentemente musulmano.
Forte la testimonianza del percorso di fede di una famiglia locale così come la visita a una ragazza cristiana del Ruanda, da 11 anni profuga in Turchia, scappata dalle violenze subite nella sua terra d’origine. Ammalata e costretta a dialisi tre volte alla settimana, ha ricevuto con commozione l’Eucarestia dalle mani di monsignor Delpini, nel sottotetto di un palazzo di 13 piani: «Io non posso andare in chiesa, ma oggi la Chiesa è venuta da me», ha commentato con indicibile gioia.
Lunedì 14 agosto, durante il tragitto per Smirne l’arcivescovo di Milano ha fatto sosta per incontrare i più «invisibili degli invisibili»: la comunità cattolica caldea scappata dall’Iraq durante le persecuzioni dell’Isis e da una decina d’anni nel cuore dell’Anatolia, ad Afyon, una delle tante città scelte dal governo turco dove tenere i numerosi profughi che ha sul proprio territorio. Tra loro 40 famiglie e più di 200 tra bambini, donne, ragazzi e anziani. In uno dei loro appartamenti, poverissimo e stipato all’inverosimile, è stata toccante la Messa in lingua araba e aramaica, presieduta dal loro Pastore, il vescovo caldeo Ramzi Garmou. Straziante, poi, il loro dolore nel raccontare con rabbia il sentirsi dimenticati in una terra di mezzo dove non possono vivere la loro fede per mancanza di un luogo, di un sacerdote, di catechisti. Commovente la generosità nell’allestire una tavola imbandita a sazietà con i più prelibati cibi della cucina irachena, preparati da tutta la comunità per gli ospiti venuti da lontano.
In un clima fatto di lacrime e sorrisi, attorno alla stessa mensa dove è stato prima spezzato il corpo di Cristo e poi condiviso il pane della generosità umana, è stato bello percepire un profondo senso di unità fra nazionalità e riti differenti, e l’esule popolo di Dio. Un piccolo, grande seme di speranza.
Due giornate, dunque, all’insegna della fraternità universale che è diventata prossimità nel dolore e nella fatica grazie al fatto che persone stanche, sfiduciate, ma con un gran desiderio di continuare a credere nel Dio di Gesù, si sono sentite visitate e ascoltate, dalla Chiesa «istituzione» che si è fatta vicina.
Sui pendii boscosi del monte Solmisso, non lontano dalle imponenti rovine di Efeso, sorge una piccola cappella venerata come la casa della Madonna (in turco Meryem Ana Evi): un luogo sacro sia per i cristiani sia per i musulmani, perché è qui che secondo la tradizione la Madonna abitò, trasferendosi a Efeso – dopo l’Ascensione al cielo di Gesù e la Pentecoste – con il discepolo Giovanni, a cui Gesù morente affidò la Madre (Gv 19,25-27). Da tempo immemorabile questo santuario è meta di pellegrinaggi da parte delle comunità ortodosse, che vi si recavano a piedi soprattutto in occasione della solennità dell’Assunta, da loro chiamata «festa della Dormizione»: e quest’anno la festa è stata resa ancora più gioiosa dalla presenza dell’arcivescovo di Milano Mario Delpini. Numerosi i pellegrini provenienti da tutto il mondo e dalle varie parrocchie della Diocesi di Smirne, insieme ai tanti turisti e fedeli musulmani. Tutti in fila – senza distinzione di etnia, età, ceto sociale e credo religioso – in silenziosa e devota attesa per poter accedere alla piccola e semplice dimora in pietra, e pregare Maria, affidandole problemi, preoccupazioni, sogni e speranze.
Tre i momenti forti della giornata: la tradizionale benedizione delle primizie (frutta e pane), per ringraziare e lodare il Signore Creatore del cielo e della terra e invocare la protezione divina su tutti i lavoratori della terra. La celebrazione eucaristica all’aperto sul piazzale gremito di fianco al piccolo santuario. E sul finir del giorno, senza più l’innumerevole folla, nell’intimità della casa, la recita del rosario in diverse lingue, tra cui l’aramaico, la lingua madre di Gesù.
Così, nella solennità dell’Assunta, la Chiesa universale e d’umanità intera, in una minuscola e semplice casa sul colle ha trovato un faro sicuro. L’arcivescovo di Milano Delpini, l’arcivescovo di Smirne Kmetec, il vescovo Caldeo Garmou, con tutti i sacerdoti, religiosi e religiose della Diocesi di Smirne e i numerosissimi fedeli (cattolici, ortodossi, caldei armeni, siriaci e anglicani) hanno celebrato insieme la Beata Vergine Maria: attorno a lei, Madre di tutta la Chiesa, si sono strette le Chiese sorelle.
Ed è grazie a lei, Madre di tutta l’umanità nuova, che – come ha ricordato Delpini nell’omelia – «contro l’ovvio, deprimente e indiscutibile, professato dal Nemico del bene, si innalza nel cuore della storia un cantico, un cantico di gioia che fa alzare la testa, allarga il cuore, semina sorrisi e invita a cantare. Risuona in ogni parte della terra l’eco della moltitudine immensa che nessuno può contare, un cantico lieto, un coro innumerevole di uomini, donne, bambini, di ogni lingua e di ogni popolo».
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