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Il vicario apostolico dell’Anatolia: “Le sfide di noi cristiani nella Turchia di oggi”

Il gesuita padre Paolo Bizzeti: «I rifugiati cristiani giunti dai Paesi vicini sono ormai più numerosi delle comunità autoctone»

GIORGIO BERNARDELLI
MILANO

«Da quando sono vescovo in Turchia i miei orizzonti si sono ampliati, sono un po’ meno Europa-centrico. E capisco che il Medio Oriente è un mondo molto complesso, che non si lascia ridurre a qualche slogan…». Lo frequenta da più di quarant’anni questo Medio Oriente, padre Paolo Bizzeti. E sono ormai quasi tre quelli trascorsi da quando Papa Francesco lo ha chiamato ad assumere la guida del vicariato apostolico dell’Anatolia a Iskenderun, l’antica Alessandretta in Turchia. Gesuita italiano, biblista appassionato, siede sulla cattedra lasciata vuota per più di cinque anni dall’uccisione del suo predecessore, monsignor Luigi Padovese. Ma è anche vescovo in una Turchia che ha vissuto vicende politiche travagliate tra dinamiche geopolitiche e rese dei conti interne. E che il presidente Erdogan tra poco più di un mese porta di nuovo anticipatamente alle urne in cerca di un nuovo plebiscito.

 

Padre Bizzeti, quale Turchia è il Paese che vive questa nuova vigilia elettorale?

«La Turchia di oggi è un Paese in cui sono in atto grandi cambiamenti in funzione di un rafforzamento del governo centrale. Si tratta di un processo sicuramente anche doloroso: ci sono voci di dissenso, è inutile negarlo. Ora il presidente ha indetto queste elezioni anticipate, l’attenzione è tutta sul 24 giugno: vedremo che cosa verrà fuori. Bisogna stare attenti anche a non destabilizzare il Paese. Ma mi pare che la politica delle grandi potenze – Stati Uniti, Europa, Russia… – miri a consolidare il Paese, non a destabilizzarlo».

 

C’è molta preoccupazione per la condizione delle minoranze oggi in Turchia…

«Le minoranze sono in una situazione problematica in molte parti del mondo: la Turchia in questo non fa eccezione. E va anche detto che come cristiani oggi non possiamo lamentare particolari fatti negativi»

 

Per i curdi, però, il clima è tornato pesante...

«Dobbiamo distinguere i gruppi terroristici dalla maggioranza della popolazione curda, che conduce la propria vita quotidiana. Certamente la questione curda esiste ma alla fine attiene alla politica internazionale: un popolo che vive diviso su quattro Paesi (Iran, Iraq, Siria e Turchia) e cerca una sua identità che non è semplice da garantire. Non so come potrà evolvere questa situazione. Mi pare però un esempio chiaro di come una volta innescato un processo di destabilizzazione con le due Guerre del Golfo e con la guerra in Siria, le ricadute poi sono su tanti aspetti, comprese queste minoranze. Ma il problema è a monte: lo scontro in atto in Medio Oriente tra le grandi potenze. E quando una guerra si prolunga per anni le ricadute sono negative per tutti».

 

Lei vive a poche decine di chilometri dalla Siria: com’è la situazione oggi su quel confine? 

«Alla frontiera oggi la chiusura è totale: sono stati realizzati 700 chilometri di muro accuratamente monitorati. Non c’è più, dunque, un afflusso di nuovi profughi dalla Siria. Ci sono, però, quelli che sono già dentro il paese. Va anche detto che il governo turco ha perseguito una politica di integrazione molto generosa con i siriani. Il problema lo vivono più duramente gli iracheni arrivati con le guerre del Golfo che si trovano in una situazione giuridicamente più fragile».

 

Il governo turco ha parlato più volte dell’intenzione di trasferire i profughi al di là del confine. Pensa possa succedere davvero? 

«Che cosa possa succedere non lo so; finché non c’è la pace in Siria non è comunque realistico pensare a un ritorno, come non lo è per l’Iraq. Oltre tutto le famiglie sono segnate da traumi pesanti: se anche domani si arrivasse alla pace molti non tornerebbero perché ci sono memorie talmente tragiche e vive nella coscienza delle persone che pochi nell’immediato vorrebbero ritornare. I rifugiati sognano piuttosto di andare in Occidente, ma le porte sono chiuse come sappiamo. È una situazione di grande stallo che accresce il loro disagio».

 

Come guarda agli accordi tra la Turchia e l’Europa sui migranti?

«Non li ho capiti tanto. Mi sembrano una misura attraverso cui l’Europa non vuole vedere il problema. Forse occorrerebbe inventare qualcosa di più articolato».

 

Per esempio?

«Affrontare con maggiore flessibilità l’accoglienza dei rifugiati. Oggi non possono nemmeno spostarsi da una città all’altra. Ma quanto avviene in Turchia non è molto diverso dallo scenario dei Paesi europei se non per le proporzioni: la Turchia è stata molto generosa nell’accogliere un numero spropositato di rifugiati; va dato atto anche alla popolazione di aver fatto un grande sforzo. Ora però la situazione si sta protraendo per anni; così anche in Turchia adesso ci sono delle proteste da parte della popolazione locale. Perché è chiaro che se non hanno possibilità di un inserimento occupazionale riconosciuto, il disagio sociale diventa più ampio. Ma lo ripeto: tutto ciò avviene a fronte di una generosità e disponibilità verso i rifugiati da parte del Paese che non ha confronti».

 

E in questo scenario come si colloca la presenza dei cristiani?

«Siamo una piccola minoranza, lo 0,2 per cento, una quota assolutamente trascurabile. I nostri problemi hanno radici lontane, da quando con il Trattato di Losanna del 1923 si è di fatto svuotata la Turchia dei cristiani. Sono problemi affrontati in modo non adeguato un secolo fa e di cui paghiamo ancora le conseguenze: quel Trattato andrebbe oggi rivisto perché è cambiato il contesto storico. Personalmente, però, credo solo il meticciato, la disponibilità ad imparare a vivere insieme, sia ovunque una garanzia di pace e anche di una crescita da parte di tutti. I cristiani hanno una funzione moderatrice in Medio Oriente; è auspicabile che restino e non si pensi di risolvere i loro problemi o aiutandoli a fuggire o cacciandoli via».

 

Tra i cristiani del Medio Oriente ci sono molti giovani: che cosa dicono alla Chiesa in cammino verso il Sinodo?

«I giovani sono tra le categorie più penalizzate in Medio Oriente. Vivono in situazioni molto difficili e nello stesso tempo dentro il mondo nuovo di internet, dei social media. Bisognerebbe ascoltarli davvero. Non solo i cristiani, ma tutti i giovani in generale. Anche perché i problemi sono comuni: la pace, la garanzia di un futuro, il problema di un lavoro, il rispetto della singola identità, la libertà religiosa…».

 

Che cosa resta oggi in Anatolia della testimonianza di monsignor Padovese?

«La sua memoria è viva come persona, ma sei anni senza vescovo hanno causato un forte tracollo nel vicariato. Stiamo tentando di ricostruire dal basso, in modo anche modesto, perché le forze in campo in termini di operatori pastorali sono molto limitate. Per esempio i sacerdoti nel mio vicariato sono in tutto nove in un territorio che ha un’estensione più grande di quella dell’Italia. E adesso dobbiamo farci carico anche dei cristiani presenti tra i rifugiati».

 

Da dove vengono e che cosa rappresentano oggi per la vostra Chiesa locale?

«Ormai sono un numero maggiore rispetto ai cristiani autoctoni: iracheni, siriani, ma anche afghani, iraniani. Per esempio avremmo bisogno di pastori di lingua araba. Molti scappano dall’Iran e dall’Afghanistan perché non c’è dubbio che in Turchia possono godere di una maggior libertà religiosa. Anche le nostre comunità locali fanno fatica ad accettare queste nuove presenze, c’è la barriera della lingua diversa. E poi normalmente questi rifugiati che arrivano in Anatolia a motivo della loro fede non pensano alla Turchia come a un luogo di arrivo: vorrebbero emigrare altrove. Però oggi non trovano più sbocchi. Sono una sfida anche per le nostre Chiese».


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